In Italia sono 104mila i giornalisti iscritti all’albo, divisi principalmente in due elenchi: i professionisti (che esercitano l’attività giornalistica come attività principale) e i pubblicisti (che svolgono anche altre attività). Questi ultimi, i pubblicisti, costituiscono la maggioranza degli iscritti: circa il 70%.
Eppure la legge 69/1963 che ha istituito la professione giornalistica ormai 60 anni fa, non prevede alcuna formazione per gli aspiranti pubblicisti, ovvero per la maggior parte dei giornalisti. Una situazione anacronistica che rappresenta oggi un grosso problema su diversi fronti, tra cui l’enorme impatto che il mondo dell’informazione ha sui suoi lettori.
Secondo alcuni, appartenenti alla “vecchia scuola”, per diventare giornalista serve solo la gavetta, anche se siamo nel 2023. Ancora oggi, per diventare pubblicista la legge prevede infatti una collaborazione continuativa e remunerata con una o più testate per almeno 24 mesi, durante i quali pubblicare mediamente 70/80 articoli in tutto (il numero varia da regione a regione). Nient’altro.
Quella del giornalista è oggi una delle professioni più in crisi in assoluto, soprattutto a causa dello stravolgimento portato dalla rivoluzione digitale agli inizi degli anni 2000 con l’avvento di internet, dei blog, e dei social network. E in uno scenario così mutato, complicato e competitivo come quello attuale, possiamo facilmente immaginare quale possa essere il risultato della mancanza della formazione. Per usare una similitudine, è come dare la patente senza scuola guida. Non c’è un istruttore. Non c’è un esame di teoria. Anzi, non c’è nemmeno la teoria. È come far guidare un auto a un conducente che non conosce i segnali stradali e le precedenze.
E le conseguenze hanno un impatto grave sulla nostra società. Nella nostra metafora, un conducente che guida un auto (il giornalista) può causare un incidente (diffondendo ad esempio una notizia non verificata). Se guida un autobus (scrivendo ad esempio per una grande testata) può distorcere anche involontariamente la realtà per migliaia di lettori (in questo articolo ho spiegato che impatto possono avere le notizie sulla percezione della realtà).
Per non parlare degli effetti negativi sull’intera categoria professionale e la filiera dell’editoria: il 65% dei giornalisti è disoccupata. Una delle ragioni è l’assenza della formazione che serve anche a consentire ai futuri giornalisti di sapersi muovere in un mercato difficile dove servono delle strategie. La mancanza di conoscenza del mercato del lavoro in questo settore equivale a non avere una mappa stradale e se si vuole fare un lungo viaggio (una buona carriera) senza una mappa non si va da nessuna parte.
Anche la mancanza di competenze specifiche, ovvero le varie tecniche di scrittura o la capacità di farsi trovare dai motori di ricerca o di promuovere i propri articoli in modo efficace, rende inutile la pubblicazione persino di un ottimo articolo.
La conoscenza di strategie di posizionamento è un’altra competenza fondamentale per evitare una carriera miserabile scrivendo pezzi per pochi euro: i giornalisti “tuttologi” si auto-boicottano continuamente in una gara al ribasso (se tutti sanno scrivere di tutto, vincerà il pezzo più economico) invece di specializzarsi e diventare esperti di una nicchia. Saper scrivere di tutto è un buon esercizio quando si inizia, ma non servirà a molto se poi non ci si specializza diventando esperti in qualcosa e differenziandosi dagli altri giornalisti.
A differenza di quando ero giovane, oggi serve un’abilitazione e una formazione per fare qualsiasi cosa, persino per guidare un motorino. Perché per fare il giornalista pubblicista non è ancora così?
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