Dimenticare ciò che è accaduto sarebbe il più grande errore che potremmo fare. Viaggio nella Fondazione Poliambulanza di Brescia che sta costruendo le fondamenta per un futuro già iniziato
Imprevedibile nella portata. Prevedibile nei fatti, forse. Perché, in tempo di globalizzazione, una polmonite anomala in Asia oggi, può interessare anche una piccola città d’Europa domani. Questa è un’ammissione generale degli infettivologi e questa è la prima lezione che il Covid-19 insegna.
Non possiamo più pensare in piccolo, siamo una rete. E questa volta la rete ha fatto da conduttore. L’allarme è stato dato, l’emergenza non è ancora finita, la popolazione si è attivata, ma ora siamo nel futuro, quel futuro anteriore dove tutto, o quasi, va ripensato.
Con questo virus la convivenza sarà lunga. Le lezioni che sta dando sono molte. L’isolamento per salvare la comunità, la solidarietà per salvare dall’isolamento. E ancora: l’azione di uno che implica conseguenze su tanti e viceversa.
Alcune di queste lezioni le abbiamo apprese in un intenso viaggio all’interno di Brescia, operosa città della Lombardia ormai famosa perché una delle province dove il Covid-19 si è scagliato più pesantemente in termini di ammalati e decessi.
La prima tappa di questo viaggio è in Fondazione Poliambulanza, struttura capofila nell’emergenza Coronavirus, che ha mostrato come l’unione tra tecnologia, umanità e coesione siano le chiavi per prepararsi a un futuro che è già qui. Trasformatosi in Ospedale Covid in soli due giorni, oggi, piano piano si prepara a riprendere la sua funzione regolare, senza dimenticare cosa è e cosa è stato, per non farsi trovare impreparati. Già oggi e domani.
Lezione numero 1. La tecnologia che cura corpo e anima
Non si può più prescindere da essa. A tutti i livelli. L’informatizzazione di sistema ha permesso a Poliambulanza di passare dal controllo della normale attività alla gestione di una emergenza in pochissimo tempo. Un sistema digitale e automatizzato che, partendo dal Pronto Soccorso fino ai vari reparti, ha fatto avere una chiara visione d’insieme su ciò che stava accadendo, consentendo di effettuare interventi più tempestivi e adeguati.
Un esempio, il sistema centralizzato e computerizzato di gestione dei posti letto, “messo in piedi” in una giornata: una mappa in tempo reale che permetteva alla porta d’accesso dell’Ospedale, cioè il Pronto Soccorso, di vedere come dove e quando e con che caratteristiche c’era un posto letto disponibile all’interno della struttura.
“Sempre grazie ad un sistema di controllo – spiega il Direttore Generale Alessandro Triboldi – abbiamo potuto tenere monitorati gli impianti di erogazione dell’ossigeno, fondamentali in questa emergenza, dove la ventilazione era basilare. Siamo passati da 2 serbatoi da 12mila litri di ossigeno a più impianti in grado di erogarne 37mila. La distribuzione doveva essere equilibrata e una centrale operativa controllava le erogazioni per tenere monitorata la redistribuzione, evitando così picchi o mancanze”.
Una tecnologia che è entrata anche nei rapporti umani e che li ha resi possibili. Il paziente Covid è solo, non può essere toccato, non può vedere nessuno se non medici e infermieri. Il contatto impedito dal virus, ha però percorso le strade del digitale, dando la possibilità ai ricoverati di fare video chiamate con i parenti, regalando così momenti di vicinanza, anche a distanza.
Ma non solo. “I device – spiega Triboldi – permettono ancora oggi ai medici di tenere monitorati i pazienti dimessi e di fare visite a distanza, con la possibilità di caricare documenti e analisi. Inoltre, è stato implementato un sistema di sms per i famigliari che portano pazienti al Pronto Soccorso. Allo stato attuale, anche in caso di pazienti non Covid, i parenti non possono sostare all’interno dell’area, ma grazie a questo sistema, possono sapere cosa sta succedendo al proprio caro all’interno dell’ospedale”.
Lezione numero 2. Le terapie intensive sono un’assicurazione e non un costo
Dati alla mano, è stato proprio grazie alle terapie intensive che tante vite si sono salvate: la specificità degli effetti della malattia richiede infatti questo tipo di cura. E così ha fatto Poliambulanza, puntando soprattutto sul setting assistenziale delle terapie intensive: servivano posti, da 16 ne hanno creati 80.
“Appena compresa la gravità della situazione, ci siamo attivati. – spiega Giuseppe Natalini, Direttore del Dipartimento di Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore. – Era domenica 1 marzo: sono iniziate le telefonate per acquisto, affitto, prestito delle attrezzature necessarie e a breve siamo riusciti a far fronte all’apertura di posti letto. Abbiamo raccolto ventilatori da ogni spazio dell’ospedale, strutture che lavorano in day hospital ci hanno prestato i loro. E’ stato uno sforzo organizzativo tempestivo ed efficiente e di grande collaborazione”.
Questo è accaduto in emergenza, ma oggi diventa materiale di riflessione. “Questo virus – spiega il Dott. Natalini – ci ha insegnato, anche se già lo sappiamo da tempo, che le persone non muoiono per i microbi o i virus in sé, ma per il danno che il microbo o il virus fa all’organismo: fa smettere di respirare, abbassa la pressione del sangue, fa smettere di urinare, manda in coma. A questo livello di gravità di infezione, per salvarsi i farmaci da soli non sono sufficienti. Quello che serve sono le terapie intensive. In alcuni posti sono viste solo come un costo, tecnologico e di personale, ma invece devono essere viste come un’assicurazione. Sono quei reparti che consentono di curare pazienti gravi Covid o non Covid: sono un baluardo che garantisce agli ospedali di lavorare con maggior sicurezza”.
Lezione numero 3. L’unione fa la forza non è un luogo comune
Trasformazione non solo dei luoghi ma anche delle persone. I reparti dell’ospedale, diventati reparti Covid, sono stati supportati da medici di altre specialità che hanno dato una mano straordinaria. Una vera e propria “riconversione umana e professionale” che si è mossa perché la situazione lo richiedeva, ma soprattutto perché c’era la volontà di farlo.
“Si è ammalato anche chi curava. – spiega il Direttore Generale Triboldi – E siamo arrivati a 140 assenti. Un vuoto colmato con reclutamento di personale volontario, di personale assunto a tempo determinato, ma soprattutto di medici di altri reparti che hanno dato il loro supporto”.
“Ho ripreso in mano il libro di fisiologia, fatto dei brevi corsi su alcune procedure e ho iniziato a affiancare il medico specialista” – racconta Oscar Vivaldi, Responsabile dell’Unità Operativa di Neurochirurgia, prestato al reparto Covid. – “I pazienti Covid non sono complessi, sono simili tra loro e quindi siamo riusciti a dare supporto. Come sappiamo, sono le terapie che ancora non sono sempre efficaci. Certo, psicologicamente non è stato semplice: lavorare completamente bardati è stata dura, il forte impatto con la morte anche, così come fare qualcosa di diverso da ciò che si fa abitualmente. Ma lo abbiamo fatto e so che ha avuto un grande significato. Dal prendersi cura dei pazienti attraverso la comunicazione con i loro parenti, all’interagire con colleghi e tornare a fare attività che non si facevano da tempo: una trasversalità che risuona a livello di operatività, ma anche a livello professionale e umano”.
Lo stesso è accaduto nelle Terapie intensive. “A noi – spiega Natalini – si sono aggiunti colleghi che fanno di solito attività di anestesia e infermieri di altri reparti: per loro è stata ancora più dura. Ma ciò ha messo in moto dinamiche di supporto psicologico reali, ha dato vita a un gruppo coeso con valori personali in comune che hanno permesso di fare quadrato, creando una equipe che vedeva sì la sofferenza, ma anche il significato di ciò che stava facendo. Ciò non ci ha evitato di piangere, ma ci ha dato anche una grande forza”. E questa non si dimentica.
Lezione numero 4. Il coronavirus non è il virus degli anziani
“Fino a due mesi fa – spiega Renzo Rozzini, Direttore del Dipartimento di Geriatria, a capo di diversi reparti convertiti Covid – pensavamo che la medicina fosse trionfante, che fosse destinata a produrre l’immortalità. Invece non è così. Il Covid 19 è una malattia mortale e noi stessi dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità prognostica. E’ tempo ora di capire meglio se ci sono, già all’inizio, degli indicatori che ci possono raccontare il decorso della malattia. Questo è il punto centrale”.
“Il Covid 19 non è il virus degli anziani – continua – è la malattia delle persone attive. Delle persone che si sono incontrare al supermercato, al cinema, sui mezzi di trasporto, andando a sciare. Il suo contagio poi va a colpire in modo drammatico gli anziani, in particolare quelli con comorbilità come problemi al cuore, ipertensione, diabete e malattie respiratorie”.
Ma ci sono ancora oggi troppe morti non spiegabili. Ed è qui che entrano in gioco gli studi e l’analisi dei dati digitali sui pazienti che Poliambulanza ha raccolto per avere un quadro più completo. “Abbiamo una base di oltre 1000 casi, sulla quale stiamo operando un data-mining per poter classificare i pazienti in cluster utili. L’età quanto influisce? Le condizioni del paziente pregresse? Le terapie date come hanno inciso sulla traiettoria della salute? Ora dobbiamo usare quello che ci è accaduto come una condizione di straordinaria ricchezza professionale. Abbiamo già iniziato collaborazioni con Università che stanno facendo lo stesso e metteremo insieme i dati per dare vita ad una casistica che permetta a noi di dare un contorno più chiaro a questa malattia, definendo meglio la capacità di prognosi”.
Lezione numero 5. Prevenire e trasformare in standard ciò che si è appreso
“Ai nuovi medici che entrano a far parte della squadra dico sempre: vi sentirete parte integrante del gruppo, quando programmando la partenza per le ferie, prima di mettere le valigie nel baule, tirerete fuori la ruota di scorta, affinché stia sopra tutto, in caso di necessità”. Così Paolo Terragnoli, direttore del dipartimento Emergenza Urgenza, ha affrontato e sta affrontando questo momento.
Già dal 23 di febbraio il Pronto Soccorso della Poliambulanza, insieme ad altri reparti, stava costruendo l’ossatura organizzativa di un “nuovo” ospedale che prevedesse percorsi di ingresso specifici e uno smistamento dei pazienti attraverso una mappa digitale che coordinasse il Pronto Soccorso con gli altri reparti. “Nessuno ha sofferto di un minuto di ritardo del soccorso. E questo è stato possibile grazie ad una versatilità che ci ha fatto cambiare progressivamente la struttura degli spazi, in base alle necessità del momento, ma soprattutto cercando di prevedere”.
Prevedere e prevenire è ancora più importante oggi. Alcune procedure adottate in emergenza diverranno uno standard: si manterrà la postazione in Pronto Soccorso di pre-triage (prima dell’accettazione) per valutare le condizioni dei pazienti e per non fare attendere quelli più gravi e verrà data massima attenzione agli aspetti procedurali di percorso che oggi appaiono fondamentali. In collaborazione con la dott.ssa Claudia Lodesani di Medici Senza Frontiere, l’ospedale sta infatti ristrutturando i percorsi di accesso e di organizzazione degli spazi in modo ancora più chiaro, attraverso colori ben definiti, per la salvaguardia di chi entra e di chi ci lavora.
“È presto per fare un’analisi corretta di tutto ciò che è stato fatto. Siamo ancora in piena emergenza e corriamo il rischio di una seconda ondata: la falsa illusione che a breve torneremo alla normalità, è qualcosa che potremmo pagare estremamente caro. Questa è forse la fase più pericolosa. Abbiamo sparato mille cartucce contro un nemico che ci ha indebolito. Oggi non abbiamo mille cartucce e il nemico potrebbe riorganizzarsi. Per questo serve ragionare con buon senso, non in termini di vantaggio personale, ma solo di sistema. Noi non siamo eroi, non vogliamo nemmeno fare gli eroi. Abbiamo solo cercato di ottenere un risultato umanamente possibile, e qualche volta siamo andati oltre”.
Lezione numero 6. Imparare a convivere col virus
“Se non dimentichiamo, saremo in grado di costruire un percorso che possa arrivare a gestire le emergenze perché siamo preparati a farlo”. Roberto Stellini, infettivologo della Poliambulanza ricorda che nel tempo alcune procedure anche in ambito medico sono state dimenticate – l’uso dei guanti e della mascherina, ad esempio – e come oggi sia tempo di imprimerle nella memoria e di guardare in faccia la realtà.
“Ci vorranno anni per uscirne e lo dico non per spaventare ma perché è necessario essere pronti. I casi sono diversi: o il virus si indebolisce per un motivo che ancora non sappiamo perdendo la sua capacità di infettare, o riusciamo ad avere una terapia eziologica rapida, oppure, ipotesi più veritiera, dovremo attendere che la popolazione mondiale abbia sviluppato l’immunità che si acquisisce per contatto diretto con l’infezione e superamento della stessa o tramite vaccinazione. Ma anche in caso di vaccino, i tempi sono lunghi per la sua produzione e diffusione sul territorio”.
Inoltre al momento nessuna “patente di immunità” sarà rilasciata, perché siamo ancora in una fase prematura: “Questo virus lo conosciamo da due mesi. Serve tempo per sperimentare. I test sierologici – spiega Franca Pagani, Direttore del Dipartimento Medicina di Laboratorio Analisi – sono molto importanti da un punto di vista epidemiologico perché aiuteranno a mappare la popolazione per capire se e quanta è venuta in contatto col virus. Ma al momento il tasso di errore tra falsi positivi e falsi negativi è ancora troppo alto. Serve tempo per studiare e testate a fondo”.
Quindi niente illusioni. Ciascuno di noi dovrà prendersi cura dell’altro, tenendo tutti i comportamenti essenziali: a livello collettivo mascherina e distanziamento sociale dovranno diventare parte del nostro quotidiano, come lo è stato abituarsi alla cintura di sicurezza. Mentre a livello sanitario si dovrà tornare alla cultura dell’approccio al paziente, trattando tutte le malattie come infettive.
“E mentre noi saremo vigili – aggiunge Stellini – la comunità scientifica continuerà a collaborare in modo coeso. La voglia di conoscere porterà a condividere i risultati per arrivare alla scoperta”.
Lezione numero 7. Umani prima di tutto
La difficoltà è stata quella di mandare a casa medici, infermieri e operatori sanitari, mai quella di coprire i turni. Il virus ha richiesto loro qualcosa di più. Un’umanità fuori dal comune. Si sono dovuti trasformare in mogli, mariti, figli, amici, perché questo è il virus che isola. Diventare coesi come non lo sono mai stati, interagendo anche senza conoscersi, facendo scudo con una divisa pesante non solo fisicamente ma anche emotivamente. Hanno imparato a sorridere con gli occhi, a parlare attraverso una mascherina ad incoraggiare chi aveva paura, una paura sconosciuta, perché il male è sconosciuto.
“E’ stato complesso riuscire a dare ai pazienti serenità, molto più difficile del solito. Ma ce la stiamo mettendo tutta – racconta Michela, infermiera. La morte presente, così presente, non l’avevamo mai vista. Ma la paura non c’è. C’è la speranza di riuscire e di uscirne”.
“In guerra sai con chi combatti, qui no – racconta Filomena, OSS – E’ un nemico che non si vede. Ci siano resi utili con un sorriso e una carezza. Questi pazienti hanno bisogno di ancora più affetto e umanità. Le cercano con gli occhi e noi siamo gli unici a potergliele dare dal vivo”.
Lezione numero 8. Il futuro si pianifica
“Programmi e piani d’azione come per i terremoti o le inondazioni. Così come in questi casi le organizzazioni vengono ‘messe in pista’ secondo procedure definite, così deve accadere anche per le emergenze sanitarie. E non mi riferisco solo alla realtà ospedaliere perché l’epidemia, e questo virus lo ha dimostrato, si cura nella comunità e non solo negli ospedali”.
È una visione chiara quella di Alessandro Triboldi, alla vigilia della ripartenza. Perché oggi “c’è un fortissimo bisogno di occuparsi anche dei No Covid. Va ridata fiducia ai pazienti, garantita loro sicurezza nel rifrequentare gli ospedali”.
Ed è questo il prossimo obiettivo, tenendo però sempre ben presente che il virus c’è ancora e fa ciò che vuole: siamo noi che dobbiamo adattarci. E se è giusto e auspicabile che vengano istituiti dei presidi Covid dove pian piano indirizzare i pazienti, ci si deve rendere anche conto che nessun ospedale potrà rimanerne immune e, una volta finita l’emergenza, dimenticarsi di ciò che è accaduto, pensando che non sia più un suo problema.
Per questo serve ripensarsi ora, come ha fatto e sta facendo Fondazione Poliambulanza: affinché le lezioni che ha dato il virus, usando verghe pesanti, non si dimentichino, diventando invece le basi di un processo di ricostruzione sociale e collettivo.
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